Dolci calabresi di Natale: una poesia chiamata Turdilli
Turdìlli, Tardìddi, Crùstuli, Tardìl, Cannarìtuli, Cannarìculi: cambia il nome, ma non la sostanza di un dolce natalizio calabrese che sa di casa per chi ci vive o è lontano.
Nel periodo di Natale, in Calabria, ogni volta che andrai a salutare zie, nonne, cugini, genitori, amici o chiunque altro, li troverete lì, già pronti sul tavolo o tirati fuori da qualche cassetto e dovrete mangiarli. Dico dovrai perché non pensateci nemmeno per un secondo di rifiutare: non esistono diete o gusti culinari, ‘nu turdillu vi l’ata mangià, crollasse il mondo.
Perché questo dolce è stato preparato dalla proprietaria di casa o donato da qualche vicino, parente o amico che ci tiene assai affinché ne godano i palati più disparati, quegli stessi palati che poi potranno (e dovranno) immancabilmente fare un confronto verbale tra i diversi assaggi: “mmm chilli ‘i zi Cuncetta su ‘na cosa fina”, “Eh, ma chilli i mamma su chiù sapuriti!”. Perché anche sentirsi improvvisamente giurati di un programma culinario è tradizione.
Solo farina, vino rosso (o bianco), olio d’oliva e un po’ di zucchero e poi – ovviamente – si friggono per condirli sul finale con miele o mosto cotto (miele di fichi, rigorosamente a KM 0 o 5 massimo, cioè fatto in casa con i fichi del proprio albero o allungando il braccio per prenderlo da qualche conoscente).
Non chiedermi le dosi della ricetta: sempre e comunque “QSP” = Quantu Sinni Piglie (QB, quanto basta) ed è la stessa risposta che ti daranno nonne, zie, mamme o chicchessia, in un mix di effettiva incertezza e ingenua voglia di nascondere un prezioso segreto.
A Milano, così come negli altri luoghi sparsi per il globo in cui si trovi un terrone fuori casa, anche durante il Natale ci si sente travolti dalle usanze della terra d’origine e dalla voglia di unirsi ai propri compaesani per condividere le feste o, come in questo caso, preparare un dolce tipico che quella casa te la fa sentire più vicina.
Ma non tralasciamo il fatto principale: il dolce tipico preparato in terra straniera, così come in Calabria, va rigorosamente diviso in parti il cui numero è direttamente proporzionale a quello delle famiglie a cui si vuole regalare.
Seguono, inevitabilmente, piatti in ceramica della propria cucina ricoperti di carta d’alluminio distribuiti di qua e di là, col suono di citofoni che riprendono vita all’arrivo e frasi di congedo che comprendono affermazioni tipo “‘pu ‘u piattu mu dà ‘ ccu calma” (poi il piatto me lo ridai, tra 1 anno – minimo. Ecco, con calma appunto).
Ed eccomi quindi a casa di Antonella, mia compaesana nata a Milano da genitori di Cetraro (il mio paese in provincia di Cosenza) che alle tradizioni ci tiene.
Qui, nella metropoli del fescion, del grattacieli che di allungarsi non smettono così come le speranze di tanti noi giovani emigrati, Antonella abita nel palazzo di fronte al mio, proprio quello che durante le giornate di quella famosa e intensa nebbia milanese manco si vede. E oggi quella nebbia ha deciso di essere presente.
È la Vigilia dell’Immacolata, giorno molto sentito in Calabria ed è per questo che sono andata a trovarla: dovevo assolutamente intingere la mia “penna da blog” in una fonte di ispirazione che sapevo di trovare tra le sue mani bianche di farina che impastano una ricetta antica.
Oltre alla mia macchina fotografica che poco le è utile, ho portato ad Antonella il mio “crivu”, antico utensile fatto a mano che ho ricevuto in regalo da Filomena (moglie di papà – per chi non ricordasse tutti i protagonisti del mio bloggghe); lo ha comprato al Santuario di San Francesco di Paola vicino Cetraro ed è uno strumento indispensabile per preparare i turdilli (se si vogliono fare come Dio comanda, altrimenti va bene anche una forchetta).
Turdìlli: la ricetta
A proposito di ingredienti, Antonella le dosi me le ha date, sarà che lei è una Impastatrice Senior di un’altra generazione e non vuole toglierci la speranza di poter preparare i turdìlli anche a noi stagisti di cucina calabrese: 1 kg farina, 500 gr di vino rosso (o vino bianco), 250 gr di olio d’oliva, 1 po’ di zucchero (eccolo il famoso QSP!), olio di semi per friggere, miele e/o miele di fichi per condire.
E tra la fase iniziale di impasto, la frittura e la colatura finale di miele o mosto cotto, quella che preferisco è proprio quando i turdilli si passano sul crivu per dargli la tipica striatura (passaggio tanto più veloce quanti sono gli anni di esperienza in turdillologia).
Io trovo un momento poetico.
Tuttavia i versi della poesia si fanno più romantici quando un turdillo si ferma tra la la lingua e il palato, per terminare con una bella leccata a indice e pollice appiccicati di miele o mosto cotto.
Perché mi faccia pure causa il “Signor Fonzies” ma il vero slogan recita “Turdilli, se non ti lecchi le dita godi solo a metà”.
Buone feste di Natale!
E ricordi la regola: il cibo se non è fritto non è buono 😉
REMMER ANNE-MARIE
06/02/2020 at 15:47Quanto è bello ritrovare tutti i ricordi della
CALABRIA
Laura
06/02/2020 at 15:49Sono felice che tu sia passata da questo racconto “dolce” da leccarsi le dita!
SALVATORE
07/10/2020 at 09:07BRAVISSIMA ,
Laura Cipolla
11/10/2020 at 16:46Grazie 🙂